Arresto Cardiaco: l’Adrenalina può Rianimare Ma Non fa Bene al Cervello

Una ricerca su 8mila pazienti condotto nel Regno Unito riapre il dibattito sull’efficacia del mediatore chimico iniettato per rimettere in moto un organo cardiaco fermo

Adrenalina, sì. Adrenalina, no: da tempo nel mondo scientifico si dibatte sulla reale efficacia di questo mediatore chimico (presente in modo naturale nell’uomo), da oltre 60 anni di fatto l’unico iniettato in vena per rimettere in moto un cuore che si è fermato. Le linee guida internazionali raccomandano la somministrazione di un milligrammo ogni 3-5 minuti durante le manovre rianimatorie. Ma diversi lavori scientifici (non conclusivi) in passato hanno sollevato dubbi su rischi e benefici nell’utilizzo dell’adrenalina. Adesso lo studio «Paramedic 2» (il primo con questi numeri e molto rigoroso) condotto dalla Warwick Medical School dell’Università di Warwick su oltre 8 mila pazienti e finanziato dall’NHS, il Servizio sanitario nazionale britannico, sembra porre un punto fermo: se l’adrenalina permette a un numero superiore di pazienti di sopravvivere a un mese di distanza dell’evento, tuttavia la percentuale di quanti di loro restano in condizioni neurologiche molto compromesse è più grande.

La metodologia: adrenalina contro placebo

Nello studio, condotto per circa due anni attraverso cinque servizi di emergenza territoriale del Regno Unito, sono stati arruolati 8.016 pazienti vittime di arresto cardiaco avvenuto al di fuori dell’ospedale . Si è seguita la metodologia del cosiddetto «trial clinico randomizzato controllato in doppio cieco»: confrontare un trattamento considerato tradizionale con un trattamento alternativo o con un placebo (cioè una sostanza inerte che viene somministrata dall’operatore senza che egli sappia se stia somministrando il farmaco o il placebo) in due gruppi omogenei di pazienti (gruppo di studio e gruppo di controllo) che vengono destinati ai due trattamenti in maniera del tutto casuale. In questo caso il trattamento tradizionale da valutare è stato la somministrazione di adrenalina durante rianimazione cardiopolmonare avanzata (ALS) alla dose di 1 milligrammo ogni 3-5 minuti per via endovenosa, appena possibile in caso di arresto cardiaco associato a ritmi non defibrillabili (cioè che non si possono «risistemare» somministrando una scarica elettrica con un defibrillatore) e dopo il terzo tentativo di shock in caso di ritmi defibrillabili che però non rispondono alla defibrillazione.

Gli arresti cardiaci avvengono per lo più in casa e chi assiste interviene

L’età media dei pazienti è risultata essere di 69 anni e per il 65% erano maschi. «Dal punto di vista epidemiologico, lo studio ha confermato informazioni già note — spiega Andrea Scapigliati presidente di Italian Resuscitation Council (Associazione scientifica senza scopo di lucro che aderisce a European Resuscitation Council e che da anni si occupa della formazione degli operatori sanitari e dei laici alla rianimazione cardiopolmonare) —: il 75% degli arresti è avvenuto in casa, il 20% in luoghi pubblici, l’1% sul posto di lavoro della vittima e il restante 4% in altri luoghi. In oltre il 90% dei casi, l’arresto aveva avuto cause mediche e non traumatiche o asfittiche. Al momento dell’arrivo dell’ambulanza (6.6 minuti in media, ndr) circa il 79% dei pazienti presentava un ritmo non defibrillabile rispetto al 20% con ritmi defibrillabili. In quasi il 60% dei pazienti, le persone presenti al momento dell’arresto avevano già iniziato la rianimazione cardiopolmonare. I pazienti sono stati arruolati se non rispondevano precocemente alla rianimazione cardiopolmonare di base (BLSD) che comprende compressioni toraciche, ventilazioni di soccorso e defibrillazione precoce. Questo vuol dire che i pazienti che hanno ripreso una circolazione spontanea prima dell’inizio della RCP avanzata (ALS) che comprende anche la somministrazione di farmaci, non compaiono nello studio».

I risultati: i pazienti sopravvivono di più ma con più danni neurologici

Che cosa è successo ai pazienti esaminati? Spiega Andrea Scapigliati: « Nel gruppo trattato con adrenalina, la proporzione di pazienti che hanno avuto un ritorno di circolazione spontanea è stata più alta (36.3% contro 11.7% nel gruppo del placebo) e conseguentemente anche il numero di pazienti trasportati in ospedale è stato più alto in questo gruppo (50.8% contro 30.7%). Il gruppo in cui è stata utilizzata l’adrenalina ne ha ricevuto una media di 5 milligrammi. Le differenze più importanti perché statisticamente significative (cioè sufficientemente grandi da non essere attribuibili al caso) sono state due: chi aveva ricevuto adrenalina ha dimostrato di avere una sopravvivenza più alta a trenta giorni dalla ripresa di circolazione dopo l’arresto cardiaco (3.2% contro 2.4%, circa un terzo di più) ma, poiché ha anche avuto quasi il doppio di alterazioni neurologiche gravi al momento della dimissione dall’ospedale (31% contro 17.8%), non ha dimostrato differenze sostanziali nella proporzione di pazienti dimessi dall’ospedale in buone condizioni neurologiche. Complessivamente, il 41% delle vittime sono stati trasportati in ospedale ma solo il 2.7% è sopravvissuto ed è stato dimesso dall’ospedale; questo basso numero è anche dovuto al fatto che nello studio non compaiono i pazienti che hanno risposto alla fase di BLSD prima della necessità di somministrare farmaci».

Un meccanismo poco chiaro

Perché l’adrenalina funziona sul cuore e non sul cervello? «In realtà il meccanismo non è ancora chiaro — spiega Giuseppe Ristagno “domain leader” di Ilcor per i farmaci —. L’adrenalina è un ormone che agisce sui recettori cosiddetti adrenergici (alfa e beta) . I recettori alfa producono una vasocostrizione dei piccoli vasi delle arteriole precapillari. Quindi l’azione dell’adrenalina vaso-costringe a livello periferico per centralizzare tutto il sangue a livello degli organi nobili, tra cui cuore e cervello. Ma sulle cause di questi esiti neurologici peggiori esistono diverse teorie: la prima sostiene che l’arresto cardiaco produce un danno cerebrale grave e dunque la somministrazione dell’adrenalina rianima la vittima ma è ininfluente rispetto al danno che si è verificato. Secondo un’altra, l’adrenalina somministrata durante l’arresto cardiaco causa una vasocostrizione anche dei capillari cerebrali e peggiora leggermente l’ipossia cerebrale. Ma si tratta di un’ipotesi studiata finora solo su animali ». E sull’uomo? «Un anno e mezzo fa è stato pubblicato un piccolo studio su pazienti rianimati in arresto cardiaco intraospedaliero dove è stata valutata la perfusione cerebrale tramite Near-infrared spectroscopy (NIRS) in 36 pazienti e si è visto che somministrando adrenalina non si verificava un aumento dell’ossigenazione cerebrale come invece ci si aspetterebbe ».

La partita per salvare una vita si gioca nei primi minuti

Quali elementi di novità porta il trial clinico? « Era già noto che l’adrenalina aumentasse la possibilità di ripresa di circolazione spontanea senza migliorare però la prognosi a lungo termine —spiega Scapigliati — . Lo studio conferma queste evidenze precedenti e le rinforza attraverso un disegno sperimentale più affidabile e rigoroso. I dati dello studio permettono almeno altre due considerazioni. La prima si basa su una valutazione statistica importante: per capire meglio quando sia importante un trattamento si valuta quale sia il numero di pazienti da trattare per avere il beneficio desiderato. In questo studio il numero di pazienti da trattare con l’adrenalina per salvare una vita in più è pari a 112. Questo è un numero molto alto e lo si capisce meglio se lo si confronta con l’effetto determinato dagli interventi che costituiscono la fase del BLSD, cioè quella prima dell’arrivo dell’ambulanza: il riconoscimento precoce dell’arresto cardiaco salva una vita ogni 11 pazienti in cui questo intervento viene applicato, la rianimazione cardiopolmonare eseguita dagli astanti ne salva 1 ogni 15 e la defibrillazione precoce 1 ogni 5». «Lo studio rafforza l’importanza del BLS rispetto ad altri interventi — sottolinea Federico Semeraro, BLS co-chair dello European Resuscitation Council— . Inoltre apre considerazioni etiche importanti e ERC prenderà in considerazione questo studio per valutare le raccomandazioni future in linea con ILCOR (International Liaison Committee on Resuscitation). Dobbiamo pensare a preservare e ridurre i danni cerebrali e non voler soltanto rianimare il cuore».

Che cosa cambierà in pratica

«L’opinione pubblica attribuisce un grande valore alla qualità di vita, oltre che alla mera sopravvivenza —ragiona Andrea Scapigliati —. La comunità scientifica, attraverso i suoi organi di confronto (in particolare ILCOR, cioè l’International Liaison Committee on Resuscitation, che riunisce tutti gli esperti mondiali nel campo della Rianimazione Cardiopolmonare e che esprime le raccomandazioni sul trattamento basate sulle evidenze scientifiche esistenti), è chiamata nei prossimi mesi a valutare se e come questo studio possa modificare i protocolli di trattamento attualmente raccomandati. Non sarà facile prendere una decisione». « Alla luce dello studio Paramedic 2 , il ruolo dell’adrenalina andrà certo rivalutato — aggiunge Giuseppe Ristagno — . In realtà si tratta di un processo avviato già nelle ultime raccomandazioni di Ilcor sull’uso dell’adrenalina, ma si attendeva proprio la conclusione di questo trial clinico» .

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