Stress e cuore, ecco cosa accade dopo l’infarto

Una ricerca con diagnostica per immagini mostra un circolo vizioso tra stress, emozioni, infiammazione e cuore nelle persone con infarto

Non si può ancora dire se sia nato prima l’uovo o la gallina, ovvero se quanto accade all’amigdala, piccolo strettura nervosa correlata con lo stress emotivo e quindi considerata con la sua attività valido marcatore di questo parametro, preceda o segua l’infarto del miocardio. Ma pare proprio esistere una relazione tra queste situazioni, che oggi è stata dimostrata anche “visivamente” attraverso complesse tecniche di diagnostica per immagini. A farlo è un team di scienziati dell’Ospedale Guro-Università di Corea di Seul, coordinati da Dong Oh Kang, pubblicata su European Heart Journal. Gli studiosi hanno utilizzato un particolare tracciante denominato 18F-FDG (la sigla sta per 18F-fluorodeossiglucosio) utilizzato nel corso di PET-Tac.  Il sofisticato esame è stato realizzato prima entro 45 giorni dall'infarto in 45 pazienti che avevano avuto un attacco cardiaco e 17 soggetti di controllo, simili per età, che non avevano avuto infarto ma erano sotto controllo per angina pectoris. Poi in 10 dei soggetti con infarto il test è stato nuovamente effettuato a sei mesi di distanza dall’evento. Tra i parametri valutati nello studio ci sono l’attività dell’amigdala, lo stato di infiammazione della parete dell’arteria carotide la produzione di particolari globuli bianchi, i macrofagi. Ebbene, a distanza di tempo dall’evento, questi tre parametri erano comunque più “attivi” rispetto a quanto osservato nel gruppo di controllo.

Stress come obiettivo di prevenzione e cura?

Stando a quanto riportano gli esperti, esisterebbe quindi la possibilità che la spinta dello stress sull’infiammazione e sulla parete delle arterie potrebbe correlarsi tanto a rendere “instabile” e quindi a rischio di rottura la placca aterosclerotica che ci crea sull’arteria quando mantenere “acceso” il motore dell’infiammazione, come mostra l’aumento dell’attività dei macrofagi. Il “rilevatore” impiegato nello studio per misurare quanto avviene, 18F-FDG, è una sostanza molto simile al glucosio e ovviamente, visto che le cellule impiegano questo elemento come nutrimento, può diventare se “visualizzato” un indice efficace per vedere cosa accade. In particolare il composto tende ad accumularsi nei tessuti proprio in base al loro assorbimento di glucosio: visto che le cellule sede di infiammazione tendono ad avere più richiesta di glucosio, visivamente si può disegnare un quadro di un determinato tessuto in grado di offrire informazioni in questo senso. Il passo avanti che la ricerca propone, quindi, è importante in termini di studio perché mostra come ci sarebbe un nesso biologico chiaro tra risposta cerebrale in caso di stress e infarto. In particolare, in ogni caso, lo stress risulterebbe in grado di entrare in gioco nella genesi di mutamenti nel rischio cardiovascolare anche attraverso azioni sulla placca aterosclerotica, che diventa più friabile e quindi più pronta a creare un’eventuale occlusione all’interno del vaso coronarico interessato dal fenomeno, con conseguente infarto. Al momento, tuttavia, non si può dire con certezza se sia il cervello a spingere i problemi cardiaci o se la direzione degli stimoli sia esattamente opposta. C’è spazio per ricerche future e per puntare comunque a trattamenti che possano incidere anche sul fattore neurobiologico messo in luce dallo studio.

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